Prefazione del libro




Prefazione a cura di Guillaume Bianco, scrittore e disegnatore francese.





Il piccolo francese che ascoltava il troubadour italiano

Sono nato con le canzoni di Georges Brassens. Da quando ho memoria, l’ho sempre sentito cantare sul giradischi dei miei genitori. Dall’alto dei miei sei anni, non capivo il senso delle sue parole, ma capivo l’emozione, l’intensità, il peso e l’umore del poeta troubadour. La sua grande voce cavernosa ha sempre avuto per me il fascino e l’effetto di quella di uno zio protettivo. Brassens non mi ha più ha lasciato, mi accompagna tutti i giorni da trent’anni.

Non avrei mai pensato di poter ritrovare quell’atmosfera così particolare, quell’intensità, la stessa voglia di libertà, in un altro “cantautore” (come dite così bene in Italia). Una decina di anni più tardi, le canzoni Il Testamento e La guerra di Piero mi risuonarono per caso nelle orecchie e mi rapirono fin dalle prime note. Avevo capito istantaneamente, al primo accordo, al primo respiro, al primo ascolto. Quelle melodie malinconiche, quel qualcosa di medievale, di grezzo, di delicato e sanguigno, di profondamente umano, mi avevano sconquassato e lo fanno ancora oggi.
Fabrizio De André non è molto conosciuto in Francia. All’epoca, i suoi dischi erano introvabili, e Internet avrebbe impiegato altri dieci anni prima di arrivare nelle case. Lo scoprivo dunque a pezzetti, attraverso piccoli indizi. Avendo scelto di studiare la lingua italiana all’università, non mancavo mai un’occasione per portarmi appresso uno di questi album (in audiocassetta), in occasione dei miei viaggi in Italia.
La scoperta di nuove canzoni era per me come un vero tesoro. Nessuna mi ha mai deluso. La lingua italiana mi era a ogni ascolto un po’ meno straniera, e capire perfettamente il testo di una sua canzone andava a esaltare l’idea già meravigliosa che mi ero fatto del suo senso. Come il Brassens della mia infanzia.
De André non è stato soltanto un autore eccezionale, è stato anche il mio professore di grammatica. Il passato remoto non ha più avuto segreti per me, ho superato il mio esame di maturità (grazie soprattutto alla prova di italiano) per merito delle sue canzoni. La mia compagna è italiana. Genovese, per la precisione. Quando andiamo a Genova, l’album Crêuza de mä risuona di continuo nella mia testa.
De André. Mi è difficile parlare di una persona intimamente così vicina e tuttavia sconosciuta. Mi sento sfrontato, è meglio fermarsi.
Sono felice che un editore permetta a un giovane autore di realizzare un libro come questo, necessario alla divulgazione della sua opera, utile alla sua memoria.
Fabrizio De André non è morto. Quando lo ascoltiamo ci sentiamo compresi, ci sentiamo a casa. I valori che canta, senza mai pretendere di farci la lezione, sono accessibili a tutti. Il suo cantare è popolare. Arriva a tutte le orecchie, è per tutte le bocche.
Questo testo così maldestro viene dritto dal cuore, è solo il mio modesto omaggio a un grande, prezioso artista.

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